Documento Teologico Pastorale

DOCUMENTO TEOLOGICO PASTORALE

 

Haec quidem Episcopi, Apostolorum successores authentica.

 

Salvatore, Vescovo Ordinario della Prelatura Cattolica SS. Pietro e Paolo, Giurisdizione Sui Iuris, Successore degli Apostoli, unitamente al Sinodo dei Vescovi degli Stati Uniti d’America e, Servo di nostro Signore Gesù Cristo.

PROEMIO

Gesù Cristo nostro Signore, prima di salire al cielo e sedere alla Destra di Dio Padre Onnipotente, ci lasciò qui sulla terra la sua Presenza Reale nella Santissima Eucaristia, cibo e bevanda per la salvezza delle anime. Quindi, per amministrarla fino ai nostri giorni, istituì il Primo Collegio Apostolico, formato dai 12 Apostoli, che, dopo la discesa dello Spirito Santo a Pentecoste sono stati guidati e ammaestrati nella Fede dal Primo degli Apostoli, Pietro, a cui Gesù stesso gli consegnò le chiavi del Regno dei Cieli. Ora, mediante il corso del tempo e dei secoli, la comunità cristiana credente in Cristo Gesù si diffondeva di numero, perciò, la Chiesa sparsa sulla terra, mandava a queste comunità, Pastori leali a portare ed insegnare la parola di Dio, spingendosi fino ai confini della terra, dove i pagani prendevano coscienza che non esiste un dio al di fuori di Gesù Cristo nostro Signore, ed essi, riacquistata la Vera Fede si convertivano alla Sua sequela e al Suo Vangelo, e con coraggio lo predicavano fino ai confini della terra. Questi Pastori fedeli sono i Vescovi, responsabili delle attività pastorali delle comunità cristiane, i primi dei servitori del popolo santo di Dio e, quindi, del Regno di Dio sulla terra. A Lui l’Onore e la Gloria, nei secoli dei secoli. Amen.

CAPITOLO I

L’Episcopato nel Nuovo Testamento e nei documenti conciliari

L’episcopato è uno dei ministeri citati nel Nuovo Testamento, in particolare nelle lettere di San Paolo, dopo la sua conversione sulle vie di Damasco, seppur con differenze rispetto a quello sviluppatosi con il tempo nelle chiese di tradizione apostolica, che riconoscono cioè l’autorità dei vescovi come successori degli apostoli. Infatti, nella Lettera a Timoteo San Paolo scrive: “Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino né violento, ma sia mite, non litigioso, non attaccato al denaro, che governi bene la propria famiglia e tenga i figli sottomessi e pienamente rispettosi perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?, che non sia convertito di recente, affinché non diventi presuntuoso e cada nella condanna inflitta al diavolo. Bisogna inoltre che abbia una buona testimonianza da quelli di fuori, perché non cada in discredito e nel laccio del diavolo”. (1Timoteo 3:1-7). Quindi l’episcopato è un ministero istituito da Cristo stesso che perdurerà fino alla fine dei secoli. I vescovi che hanno ricevuto la valida consacrazione e la successione degli Apostoli, presiedono al posto di Dio, ammaestrano con amore ed umiltà il gregge di Cristo. Nel momento della loro consacrazione ricevono lo Spirito Santo, che agisce in maniera tale e, in modo eminente e visibile, che, prendono il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscano in pienezza in sua vece. Essi, nelle piene funzioni del proprio ministero apostolico, sono considerati vicari e legati di Gesù Cristo nostro Signore sulla terra. Questi pastori, scelti a pascere il popolo santo di Dio, sono gli autentici esecutori di Cristo e dispensatori dei misteri e dei sacramenti, voluti da Dio, per il bene e la salvezza delle anime (1 Cor 4,1). Ad essi è stata affidata in prima persona la testimonianza al Vangelo della grazia di Dio (Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso ministero dello Spirito Santo e della giustizia (2 Cor 3,8-9). Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono stati arricchiti da Cristo con un’effusione particolare dello Spirito Santo disceso su loro, mentre erano riuniti nel Cenacolo in preghiera, con la presenza di Maria Santissima (At 1,8; At 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi, mediante l’imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro collaboratori (1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso fino a noi nel Rito della consacrazione episcopale. Il santo Concilio ci insegna quindi che, con la consacrazione episcopale viene conferita al candidato Presbitero la pienezza del sacramento dell’ordine, che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, realtà totale del sacro ministero. Per capire al meglio la funzione del Vescovo, torniamo ai tempi di Gesù. “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni. Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì” (Mc 3, 13-19). Durante l’ultima cena Gesù manifesta la volontà di far partecipare i suoi Apostoli al suo sacerdozio, espresso come consacrazione e missione: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17, 18-19). Questa partecipazione, durante il ministero di Cristo si dà in vari momenti che si possono considerare preparazione all’istituzione dell’ordine sacro: quando chiama gli apostoli costituendoli come abbiamo detto pocanzi in collegio (cfr. Mc 3, 13-19), quando li istruisce e li invia a due a due a predicare la buona novella e l’Avvento del Regno di Dio (cfr. Lc 9, 1-6), quando gli affida loro la missione universale (cfr. Mt 28, 18-20), infine quando ordina loro di celebrare l’Eucaristia: «fate questo in memoria di me» (1 Cor 11, 24). Nella missione apostolica essi «furono pienamente confermati il giorno di Pentecoste». Gli Apostoli dopo la discesa dello Spirito Santo, durante tutta loro vita, non solo ebbero vari e fedeli collaboratori nel ministero, ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, lasciarono quasi in testamento ai loro immediati cooperatori, con l’incarico di completare e consolidare l’opera da essi incominciata e, diedero disposizione che, quando essi fossero tornati in beatitudine nella Casa del Padre, altri uomini provati prendessero la successione apostolica del loro sacro ministero. È così che i vescovi hanno ricevuto il ministero della comunità con l’aiuto dei presbiteri e dei diaconi, presiedendo in luogo di Dio al gregge, di cui sono i pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Santa Chiesa di Cristo. Nel Nuovo Testamento il ministero apostolico è trasmesso mediante l’imposizione delle mani e accompagnata da una preghiera di consacrazione (cfr. At 6, 6; 1 Tm 4, 14; 5, 22; 2 Tm 1, 6): «Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie, Dio di ogni consolazione che abiti nell’alto dei cieli e guardi ciò che è umile, che conosci tutte le cose prima ancora che esistano, che hai dato le leggi alla Chiesa per mezzo della parola della tua grazia, che fin dal principio hai predestinato la razza dei giusti discendenti da Abramo e hai istituito capi e presbiteri e provveduto a che il tuo culto non mancasse mai di ministri, che sin dall’inizio dei tempi ti sei compiaciuto di essere glorificato da coloro che hai scelto: effondi ora la potenza – che solo da Te può venire – dello Spirito sovrano che tu hai dato al tuo diletto figlio Gesù Cristo e questi ai santi apostoli, i quali fondarono in ogni luogo la Chiesa come tuo santuario a gloria e lode eterna del tuo nome. Concedi, Padre che conosci i cuori, a questo servo che hai scelto per l’episcopato, di pascolare il tuo santo gregge, di esercitare, in maniera irreprensibile e in tuo onore, la massima dignità sacerdotale stando al tuo servizio giorno e notte, di rendere il tuo volto incessantemente propizio, di offrirti i doni della tua santa Chiesa, di avere, in virtù dello Spirito del sommo sacerdozio, il potere di rimettere i peccati secondo il tuo comando, di distribuire i compiti secondo la tua volontà e di sciogliere ogni legame in virtù del potere che hai dato agli apostoli, di esserti accetto per la mansuetudine del suo spirito e la purezza del suo cuore, di offrirti il profumo della soavità, per mezzo di Gesù Cristo tuo figlio, per il quale hai gloria, potenza e onore, Padre e Figlio con lo Spirito Santo, ora e nei secoli dei secoli. Amen». Questa è la prassi già presente nei riti di ordinazione più antichi, come quelli raccolti nella Traditio apostolica, e negli Statuta Ecclesiae Antiqua. Questo nucleo essenziale, che costituisce il segno sacramentale, è stato arricchito nel corso dei secoli con alcuni riti complementari, che possono differire a seconda delle diverse tradizioni liturgiche. «Nel rito latino, i riti di introduzione, la presentazione e l’elezione dell’ordinando, l’omelia del vescovo consacrante, l’interrogazione dell’ordinando, sui diritti e doveri del suo ministero, le litanie dei santi, attestano che la scelta del candidato è stata fatta in conformità alla prassi della Chiesa e preparano l’atto solenne della consacrazione, per l’appunto: l’imposizione delle mani del Vescovo Consacrate e degli altri Vescovi Co-consacranti e, la Preghiera di Consacrazione. A questa fanno seguito altri riti che esprimono e completano in maniera simbolica il mistero che si è compiuto: l’unzione del santo crisma, segno speciale dello Spirito Santo che rende fecondo il loro ministero apostolico; la consegna del libro dei Vangeli, dell’anello, della mitra e del pastorale, come segno tangibile della sua missione apostolica, di annunziare con gioia e fedeltà la Parola di Dio, essere fedele alla Chiesa, sposa di Cristo, con il compito di pastore del gregge del Signore. Ricapitolando infatti, nella Costituzione Dogmatica della “Lumen Gentium” ci enuncia, che Gesù Cristo, “sedendo alla Destra di Dio Padre non cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici”, per mezzo dell’eccelso ministero dei quali:

  1. in primo luogo “predica la parola di Dio a tutte le genti” (LG 21). È dunque il Cristo glorioso che, col suo potere sovrano di salvezza, agisce mediante i vescovi, il cui ministero di evangelizzazione giustamente è definito “eccelso” (Ivi). La predicazione del vescovo non solo prolunga la predicazione evangelica di Cristo, ma è predicazione di Cristo stesso nel suo ministero.
  2. Inoltre, per mezzo dei vescovi e dei loro cooperatori, Cristo nostro Signore “amministra ai credenti i sacramenti della fede; per mezzo del loro ufficio paterno (cf. 1Cor 4,15) incorpora nuove membra, con il rinnovamento soprannaturale, al suo corpo” (LG 21). Tutti i sacramenti sono amministrati in nome di Cristo. In modo particolare la paternità spirituale, significata e attuata nel sacramento del Battesimo, è legata alla rigenerazione che viene da Cristo.
  3. Infine, Cristo, “con la sapienza e prudenza dei vescovi dirige e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine del Cielo” (LG 21). La sapienza e la prudenza sono dei vescovi, ma vengono da Cristo che governa, per loro mezzo, il popolo di Dio.

A questo punto dobbiamo osservare che il Signore, quando opera per mezzo dei Vescovi, non toglie i limiti e le imperfezioni della loro condizione umana, quale si esprime nel temperamento, nel carattere, nel comportamento e nella dipendenza da forze storiche di cultura e di vita. Anche in questo possiamo ricorrere alle notizie che il Vangelo ci fornisce sugli Apostoli scelti da Gesù. Erano uomini che senza dubbio avevano dei difetti, delle fragilità come tutti gli esseri umani. Durante la vita pubblica di Gesù, essi litigavano per chi di loro doveva avere il primo posto, e, successivamente, tutti abbandonarono il loro Maestro al momento dell’arresto nel Giardino del Getsemani. Dopo la Pentecoste, con la grazia ricevuta dallo Spirito Santo, essi vissero nella piena comunione di fede e di carità. Ma ciò non significa che fossero spariti in loro tutti i limiti inerenti alla condizione umana. Com’è noto, San Paolo rimproverò San Pietro per il suo comportamento troppo cedevole verso coloro che volevano conservare nel Cristianesimo l’osservanza della legge giudaica (cf. Gal 2,11-14). Di San Paolo stesso, sappiamo che non aveva un carattere facile e che ci fu un forte contrasto tra lui e Barnaba (At 15,39), benché questi fosse “uomo virtuoso, pieno di Spirito Santo e di fede” (At 11,24). Gesù conosceva l’imperfezione di coloro che aveva scelto, e mantenne la sua scelta anche quando l’imperfezione si manifestò in forme gravi. Gesù ha voluto operare per mezzo di uomini imperfetti e in certi momenti forse riprovevoli, perché al di sopra delle loro debolezze avrebbe trionfato la forza della grazia, data dallo Spirito Santo, ma non tutti acquisirono questa grazia santificante, vediamo l’esempio di Giuda Iscariota, che si tolse la vita impiccandosi. Può accadere che, con le loro imperfezioni o addirittura le loro colpe, anche dei Vescovi vengano meno alle esigenze della loro missione e rechino un danno enorme alla comunità. Perciò dobbiamo pregare per i Vescovi, affinché s’impegnino sempre ad imitare il Buon Pastore, e che governano il gregge affidato da Cristo, con diligenza, amore e soprattutto, con carità. Non è possibile qui fare un elenco dettagliato dei Vescovi Santi che sono stati le guide e i plasmatori delle loro Chiese nei tempi antichi e in tutti i tempi successivi, anche nel tempo attuale. Basti un accenno alla grandezza spirituale di qualche figura eminente. Si pensi allo zelo apostolico e al martirio di sant’Ignazio di Antiochia; alla sapienza dottrinale e all’ardore pastorale di sant’Ambrogio e di sant’Agostino; all’impegno per la vera riforma della Chiesa ad opera di san Carlo Borromeo; al magistero spirituale e alla lotta per la preservazione della fede cattolica di san Francesco di Sales; all’attaccamento di sant’Alfonso Maria de’ Liguori per la santificazione del popolo e alla direzione delle anime; alla intemerata fedeltà al Vangelo e alla Chiesa di sant’Antonio Maria Gianelli! Ma quanti altri pastori del popolo di Dio si dovrebbero ricordare e celebrare, appartenenti a tutte le nazioni e a tutte le Chiese del mondo? Contentiamoci qui di rivolgere un pensiero di omaggio e di gratitudine per i tanti Vescovi di ieri e di oggi che con la loro azione, fede, evangelizzazione, la loro preghiera e il loro martirio, continuano la testimonianza degli Apostoli di Cristo, e la difesa del suo Santo Vangelo. Certo, alla grandezza del “ministero eccelso” ricevuto da Cristo come successori degli apostoli, corrisponde la loro responsabilità di “ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio” (cf. 1Cor 4,1). Come amministratori che dispongono dei misteri di Dio per dispensarli in nome di Cristo, i Vescovi devono essere strettamente uniti e fermamente fedeli al loro Maestro, Gesù Cristo nostro Signore, che non ha esitato a dare ad essi, come agli Apostoli, una missione decisiva per la vita della Chiesa in tutti i tempi: la santificazione del popolo santo di Dio. In conclusione, al vertice di questa comunione rimane il Vescovo, che esercita il potere conferitogli dalla “pienezza” del sacramento dell’Ordine da lui ricevuta come un servizio d’amore, partecipazione, secondo un modo proprio, della carità infusa nella Chiesa dallo Spirito Santo (cf. Rm 5,5). Mosso dalla coscienza di questa carità il Vescovo, imitato dal presbitero, agirà non in modo individualistico e assolutistico, ma “nella comunione gerarchica col capo e con le membra del Collegio Episcopale” (LG 21). È certo che la comunione di tutti Vescovi, uniti tra loro e con il Romano Pontefice, e proporzionalmente quella dei presbiteri e dei diaconi, manifesta nel modo più alto l’unità di tutta la Chiesa, come comunità d’amore, in tutto il mondo intero, per poi, essere riuniti in un tutt’uno con il Regno dei Cieli.

CAPITOLO II

La Successione Apostolica, identità di ogni Vescovo

Bisogna innanzitutto fare una premessa generale, prima di addentraci seriamente nell’argomento. Che cos’è una Successione Apostolica? La Successione Apostolica è il lignaggio apostolico che parte da Gesù Cristo, trasmesso ai dodici Apostoli e continua imperturbato fino ai nostri giorni nella Tradizione Apostolica. Quindi i Vescovi vengono definiti: Successori degli Apostoli “Apostolorum Successores”, e “Vicari di Cristo in terra” per istituzione divina, mediante la discesa dello Spirito Santo che è loro conferito nella liturgia della consacrazione episcopale, sono quindi, costituiti Pastori della Chiesa, col compito di insegnare, santificare e guidare, in comunione gerarchica col Successore di Pietro e con gli altri membri del Collegio Episcopale. Il titolo di “Successore degli Apostoli” è alla base principale del ministero pastorale del Vescovo e della sua missione nella Chiesa e ben definisce la sua figura e la sua missione. I Vescovi, in quanto inseriti nel Collegio Episcopale, che succede al Collegio Apostolico, sono intimamente uniti a Cristo Gesù, che continua a scegliere e a mandare i suoi Apostoli sino ai confini della terra. Il Vescovo, come degno Successore degli Apostoli, in forza della consacrazione episcopale ricevuta validamente e mediante la comunione gerarchica, è il principio visibile e il garante dell’unità della sua Chiesa particolare a cui è stato destinato. Il libro dell’Apocalisse afferma che le mura della nuova Gerusalemme “poggiano su dodici basamenti, sui quali ci sono scritti a caratteri d’oro i nomi dei dodici Apostoli” (Ap 21,14). La Costituzione Dogmatica Lumen Gentium insegna: “I Vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli, quali Pastori della Chiesa, e chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e Colui che ha mandato Cristo”. L’essere successori degli Apostoli dà ai Vescovi la grazia e la responsabilità di assicurare alla Chiesa la nota dell’apostolicità. Affinché il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, gli Apostoli lasciarono come successori i Vescovi, affidando ad essi il loro proprio compito di magistero. Per questo motivo i Vescovi, lungo il susseguirsi delle generazioni del tempo e dei secoli, sono chiamati a custodire e a trasmettere la Sacra Scrittura ed a promuovere la Traditio, vale a dire, l’annuncio dell’unico Vangelo e dell’unica fede, nell’integra fedeltà all’insegnamento degli Apostoli; allo stesso tempo, sono tenuti ad illuminare con la luce del Vangelo le questioni nuove che i cambiamenti delle situazioni storiche dell’umanità continuamente presentano, cambiamenti in questioni culturali, sociali ed economiche, scientifiche e tecnologiche, ecc.. I Vescovi, inoltre, hanno il compito di santificare e di guidare il Popolo santo di Dio una “cum et sub Petro”, in continuità con l’opera svolta dai Vescovi loro predecessori e con dinamismo missionario dell’intera Chiesa.

Secondo quanto è riportato nel catechismo della Chiesa cattolica, la chiesa è apostolica perché:

  • è fondata sugli Apostoli, e ciò in un triplice senso:
  • essa è stata e rimane costruita sul “fondamento degli Apostoli” (Ef 2,20), testimoni scelti e mandati in missione da Cristo stesso;
  • custodisce e trasmette, con l’aiuto dello Spirito che abita in essa, l’insegnamento, il buon deposito, le sane parole udite dagli Apostoli;
  • fino al ritorno di Cristo, continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il collegio dei vescovi, “coadiuvato dai sacerdoti ed unito al successore di Pietro e supremo pastore della Chiesa” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Ad gentes, 5)».

Ora addentrandoci seriamente nell’argomento. Nell’insegnamento della teologia cattolica d’oggi, si intende per apostolicità la proprietà mediante cui la Chiesa conserva, lungo i secoli, la sua identità fondamentale con la Chiesa degli Apostoli. Questa apostolicità consta di due componenti essenziali: l’apostolicità di ministero e l’apostolicità di vita e di dottrina. La prima sta nel fatto della successione ininterrotta di ministri a capo delle comunità; la seconda è costituita dalla conservazione della forma di vita e di dottrina trasmessa dagli Apostoli. Pertanto, affinché ci sia apostolicità, e più specificamente, perché una Chiesa sia ritenuta apostolica, non basta che a capo di questa Chiesa ci sia un Vescovo: si richiede inoltre he questo Vescovo conservi la forma di vita e di dottrina che ci hanno tramandato gli Apostoli. È importante sottolineare che queste due forme o componenti della apostolicità vanno tenute sempre unite nella “teologia dell’apostolicità” e della successione apostolica, come è documentato abbondantemente dalla più antica e più ricca tradizione della Chiesa Cattolica. D’altra parte, bisogna anche affermare che, la successione apostolica è necessaria nella Chiesa per mantenere e assicurare l’apostolicità della Chiesa medesima. E questo per un motivo che si comprende subito: la presenza di ministri, stabiliti ufficialmente nella comunità, è necessaria perché, il ministero rappresenta l’elemento dall’alto, ovverosia, che non proviene dalla comunità, per vegliare su di essa, per esortarla e perfino, sé è necessario, correggerla. Però, bisogna sempre tener presente, in tutto questo, che l’autenticità del ministero ecclesiale non può essere garantita dal solo fatto che il ministro abbia ricevuto validamente l’imposizione delle mani. Più importante ancora di questo gesto è quello che si intende esprimere con esso: da una parte, che il ministero non proviene dalla comunità, ma viene dall’alto, quindi, è un dono di Dio, che chiama l’eletto al compimento della Sua volontà, (divina); da un’altra parte, che il ministero è ricevuto ed accettato dalla Chiesa, in modo tale che, come sappiamo bene, il ricevimento e l’accettazione ecclesiale sono il criterio determinante ed ultimo dell’autenticità di un dato ministero. Qui, però, c’è da chiarire un punto importante: il rapporto tra la successione apostolica e la successione episcopale. Da una parte, che i Vescovi siano «i successori degli apostoli» è un dato affermato in modo tale dalla tradizione e dal Magistero della Chiesa che si impone come un dato di Fede. Però, d’altra parte, bisogna dire, con tutta chiarezza, che non è la stessa cosa parlare di successione apostolica e parlare di successione episcopale. Durante il I e II secolo, sappiamo con certezza che c’era la successione apostolica, ma non sappiamo se c’era o se non c’era la successione episcopale in molte comunità cristiane. Dal III secolo in poi, sappiamo che la successione episcopale è stata la forma storica e concreta che ha ricevuto e assunto la successione apostolica nella Chiesa. Conseguentemente, quando diciamo che l’apostolicità appartiene alla struttura della Chiesa, vogliamo dire, tra l’altro, che l’esistenza di ministri, ufficialmente stabiliti in ogni comunità ecclesiale, è un dato che appartiene alla struttura della Chiesa medesima. Pertanto, la presenza di questi ministri, in ogni comunità ecclesiale, è un fatto e un elemento che non deve mancare in nessuna comunità di credenti in Cristo. Perciò, quando diciamo che nelle comunità cristiane ci devono essere ministeri e ministri ufficialmente stabiliti, vogliamo dire che questo fatto è un dato che non appartiene soltanto all’organizzazione della Chiesa e di ogni comunità, ma, prima ancora, si tratta di un elemento essenzialmente costitutivo della struttura stessa della Chiesa. Perciò se una comunità rifiutasse non tanto un dato ministro, ma il fatto stesso del ministero, essa cesserebbe di essere una vera comunità di credenti, cioè, cesserebbe di essere Chiesa. Di conseguenza, si deve dire che appartiene alla struttura della Chiesa non solo l’apostolicità della Chiesa stessa, ma anche il fatto della successione apostolica avvenuta storicamente e che continua nella successione episcopale. Invece, all’organizzazione della Chiesa appartiene il fatto storico che la successione episcopale si è concretizzata e realizzata attraverso forme storiche che questi ministeri sono andati acquistando col tempo e nel corso dei secoli. Infine, bisogna osservare che qui intendiamo per struttura quanto c’è di divino e di immutabile nella Chiesa, mentre per organizzazione intendiamo quanto c’è di umano e mutevole nella medesima Chiesa. Pertanto, la struttura è l’elemento che viene dall’alto, mentre l’organizzazione è quello che viene dal basso. Conseguentemente, la struttura è ciò che nella Chiesa deve rimanere intatto lungo i secoli, appunto perché viene dall’alto, vale a dire, da Dio stesso, mentre l’organizzazione può, e alle volte deve essere cambiata, perché è una realtà umana, cioè, una realtà che viene dal basso. Stando così le cose, la struttura divina della Chiesa è intoccabile che consiste nella sua apostolicità, mentre l’organizzazione umana è il complesso di forme storiche e di realizzazioni concrete che la struttura acquista nello spazio e nel tempo, servendosi del Codice di Diritto Canonico. Pertanto, intendiamo per apostolicità l’elemento divino e intoccabile che Dio stesso ha elargito come dono alla sua Chiesa e che, perciò, deve rimanere intatto fino alla fine dei tempi. Invece, tutto ciò che non è l’apostolicità in sé stessa è il complesso di forme storiche e mutevoli che entrano nel concetto di organizzazione. Esse non sono altro che il risultato dell’iniziativa umana lungo la storia, anche se in certi momenti questa iniziativa umana può godere di una speciale assistenza divina, soprattutto in quei casi in cui, come insegna la dottrina ufficiale della Chiesa, il Magistero Ecclesiastico è infallibile: si tratta in sostanza dell’infallibilità del Romano Pontefice, del Concilio Ecumenico Vaticano II, e di tutto il Magistero Ordinario.

CAPITOLO III

Il Vescovo nel Cuore di Cristo e della Sua Santa e Apostolica Chiesa

Identità e missione del Vescovo all’interno della Chiesa, nel considerare sé stesso ed i suoi compiti, deve tener presente come centro che delinea la sua vera ed autentica identità, la sua missione, il mistero di Cristo e le caratteristiche che il Signore Gesù durate la sua vita sulla terra volle per la sua Chiesa, “un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Pastore e Vescovo delle anime (cf. 1P 2,25), che il Vescovo comprenderà sempre più profondamente il mistero della Chiesa, nella quale la grazia della sua consacrazione episcopale lo ha posto come maestro, sacerdote e pastore per guidarla con la sua stessa potestà, nell’umiltà e nella preghiera. È considerato nella Chiesa come, Vicario del “Pastore grande delle pecore”, Gesù nostro Signore, il Vescovo deve manifestare con la sua vita, la sua morale e con il suo ministero episcopale la paternità di Dio, la bontà, la sollecitudine, la misericordia, la dolcezza e l’autorevolezza di Cristo, che è venuto per dare la sua vita sulla Croce, per fare di tutti gli uomini una sola famiglia, riconciliata nell’amore della Santissima Trinità. Deve quindi manifestare anche la perenne vitalità dello Spirito Santo, che anima la Chiesa e la sostiene nell’umana debolezza. Questa indole trinitaria dell’essere e dell’agire del Vescovo ha la sua radice nella vita stessa di Cristo. Egli è il Figlio Eterno ed Unigenito del Padre, l’Increato, da sempre nel suo seno (cf. Gv 1,18) e l’unto di Spirito Santo, mandato nel mondo, per salvarlo dalla dannazione eterna (cf. Mt 11,27 Gv 15,26 16,13-14). Alcune immagini vive della funzione del Vescovo sono tratte dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione della Chiesa, quali: del pastore, del pescatore, del padre, del fratello, dell’amico, del portatore di conforto, del servitore, del maestro, dell’uomo forte, del “sacramentum bonitatis”, rimandano a Gesù Cristo e mostrano il Vescovo come un uomo di fede e di discernimento, di speranza e di impegno reale, di mitezza e di comunione. Tra le diverse figurazioni quella del pastore, con particolare eloquenza, illustra l’insieme del ministero episcopale, in quanto manifesta il suo significato, il suo fine, il suo stile, ed il suo dinamismo come evangelizzatore e missionario. Cristo Buon Pastore indica al Vescovo la quotidiana fedeltà alla propria missione, la piena e serena dedizione alla Chiesa, la gioia di condurre verso il Signore il Popolo di Dio che gli viene affidato e la felicità nell’accogliere nell’unità della comunione ecclesiale tutti i figli di Dio dispersi sulla terra (cf. Mt 15,24 Mt 10,6). Nella contemplazione dell’icona evangelica del Buon Pastore, il Vescovo trova il senso del dono continuo di sé, ricordando che il Buon Pastore ha offerto la vita per salvare da morte eterna il suo gregge (cf. Gv 10,11) ed è venuto per servire e non per essere servito (cf. Mt 20,28); inoltre, vi trova la fonte del ministero pastorale per cui le tre funzioni, di insegnare, santificare e governare, debbono essere esercitate con i tratti caratteristici del Buon Pastore. Quindi, per svolgere, un fecondo ministero episcopale, il Vescovo è chiamato ad uniformarsi a Cristo in maniera tutta speciale nella sua vita personale e nell’esercizio del ministero apostolico, così che il “pensiero di Cristo” (1Co 2,16) pervada totalmente la sua mente, rafforzi le sue idee, santifica i suoi sentimenti, fortifichi i suoi comportamenti, e la luce che promana dal volto di Cristo illumini “il governo delle anime che è l’arte delle arti”. Questo impegno interiore ravviva nell’esistenza del Vescovo la speranza di ricevere da Cristo il premio eterno, quando verrà a radunare e a giudicare tutte le genti come Pastore Universale e Giudice Supremo (cf. Mt 25,31-46), con la “corona di gloria che non appassisce” (1P 5,4). Sarà questa fiducia a guidare il cammino del Vescovo lungo il suo ministero, ad illuminare le sue giornate, ad alimentare la sua spiritualità, a nutrire la sua fiducia, a sostenere la sua lotta contro il male che si dilaga nel mondo come un uragano senza sosta e, combattere l’ingiustizia contro coloro che sono indifesi, nella piena certezza che insieme ai fratelli contemplerà un giorno l’Agnello Immolato, il Pastore che conduce tutti alla fonte della vita senza fine, e della Beatitudine di Dio in Paradiso (cf. Ap 7,17). La Chiesa è quindi considerata il Corpo mistico di Cristo e del popolo santo di Dio. La Costituzione Dogmatica della “Lumen Gentium” riporta alcune immagini che illustrano il mistero della Chiesa e se ne evidenziano le note caratteristiche, dove si rivela l’inscindibile legame che il popolo di Dio ha con Gesù Cristo. Tra queste spiccano quella del Corpo mistico, di cui Cristo è il Capo, e quella del popolo di Dio sono le sua membra, che raccoglie in sé tutti: i pastori e i fedeli, che sono uniti intimamente dallo stesso Battesimo. Questo immenso popolo ha per capo invincibile Cristo, il quale è stato “messo a morte nella carne per purificare i nostri peccati, è stato risuscitato dai morti per la nostra giustificazione” (Rm 4,25); ha ridato la condizione, la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cui cuore come in un tempio dimora la Terza Persona della Santissima Trinità lo Spirito Santo; ha instaurato nel mondo come legge il nuovo comandamento dell’amore, “ama il prossimo tuo come te stesso” e,  ha istaurato il Regno di Dio sulla terra. Questa sua Chiesa, è una e unica, per questo evidente motivo; nostro Signore Gesù Cristo la diede da pascere a Pietro il Primo degli Apostoli (cf. Gv 21,17) e agli altri Apostoli, ha affidato loro la diffusione, il mantenimento e il governo, (cf. Mt 28,18-20) e la costituì per sempre colonna e sostegno della verità assoluta (cf. 1Tm 3,15). Ora a tutti i membri di questo popolo, che Cristo ha dotato di doni gerarchici e carismatici, li ha costituiti in una comunione di vita, di carità e di verità, li ha insigniti della dignità sacerdotale (cf. Ap 1,6; Ap 5,9-10), sono stati da Lui consacrati mediante il Battesimo perché offrano sacrifici spirituali mediante tutta la loro attività, e inviati come luce del mondo e sale della terra (cf. Mt 5,13-16) per ammaestrare, proclamare le opere meravigliose di Colui che li ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce di salvezza (cf. 1P 2,4-10). Alcuni membri del Corpo di Cristo, tuttavia vengono consacrati, mediante il sacramento dell’Ordine, per esercitare il sacerdozio ministeriale. Il sacerdozio comune e quello ministeriale o gerarchico differiscono essenzialmente tra loro, anche se sono ordinati l’uno all’altro, poiché ciascuno di essi partecipa a titolo differente all’unico sacerdozio di Cristo. “Il sacerdozio ministeriale, con la potestà sacra con cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico tutti i giorni della sua vita terrena ‘in persona Christi’ e l’offre a Dio Padre a nome di tutto il popolo. Invece, i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio comune, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia e lo esercitano con il ricevere i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità verso il proprio prossimo”. Il Popolo di Dio non è solo una comunità di genti diverse che partecipano con gioia allo stesso sacrificio santificante di Cristo mediante l’Eucaristia, ma nel suo stesso interno si compone anche di diverse parti: le Chiese particolari, formate ad immagine della Chiesa universale, nelle quali e dalle quali è costituita l’una ed unica Chiesa Cattolica. Secondo il Documento del Magistero della Chiesa, la “Dominus Iesus” scritta dal Cardinale Joseph Ratzinger, l’attuale Papa Benedetto XVI, cita al paragrafo 17: “Le Chiese che, pur non essendo in perfetta comunione con la Chiesa Cattolica, restano unite ad essa per mezzo di strettissimi vincoli, quali la successione apostolica e la valida Eucaristia, sono vere Chiese particolari”. La Chiesa particolare è affidata al Vescovo, che è principio e fondamento visibile di unità, ed è attraverso la sua comunione gerarchica con il capo e gli altri membri del Collegio episcopale che la Chiesa particolare si inserisce nella “plena communio ecclesiarum” dell’unica Chiesa di Cristo, solo che alcuni casi non e propriamente così, quindi, questo non vuol dire che non appartenga alla Chiesa Cattolica, ma ne fa pienamente parte. Per questo, l’intero Corpo mistico di Cristo è anche un corpo di Chiese, tra le quali si genera un’ammirevole reciprocità, giacché la ricchezza di vita e di opere di ciascuna sovrabbonda nel bene di tutta la Chiesa e alla copiosità soprannaturale di tutto il Corpo partecipano lo stesso pastore che ne è alla guida e tutto il suo gregge che gli è stato affidato. Queste Chiese particolari sono anche “nella” e “a partire dalla” Chiesa, che in esse “si trova e opera veramente Cristo”. Per questo motivo, il Successore di Pietro, Capo del Collegio Episcopale, ed il Corpo dei Vescovi sono elementi propri e costitutivi di ciascuna Chiesa particolare. Il governo del Vescovo e la vita diocesana o di una Prelatura debbono manifestare la reciproca comunione con il Romano Pontefice e con il Collegio Apostolico, nonché con le Chiese particolari sorelle, particolarmente con quelle che sono presenti nello stesso territorio. La Chiesa è considerata Sacramento di salvezza in quanto, per mezzo della sua visibilità, Cristo è presente tra gli uomini e continua la sua missione, donando ai fedeli il suo Spirito Santo. Il corpo della Chiesa si distingue pertanto da tutte le società umane; infatti, non sulle capacità personali dei suoi membri essa si regge, ma sull’intima unione con Cristo, da cui riceve la Grazia Santificante e comunica agli uomini la vita e l’energia per sconfiggere il male. La Chiesa non solo significa l’intima unione con Dio, essa è definita come l’unità di tutto il genere umano, segno efficace e sacramento di salvezza fino alla fine dei secoli. Le funzioni della Chiesa e le note essenziali che la definiscono Una e Santa, Cattolica e Apostolica, rivelano che essa nella sua dimensione più intima, è un mistero di comunione, innanzitutto con la Santissima Trinità, perché, come ci insegna da sempre il Concilio Vaticano II “i fedeli, uniti al Vescovo, hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo incarnato, morto e glorificato, nell’effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione con la Santissima Trinità”. La comunione sta nel cuore dell’autoconoscenza della Chiesa come un legame intimo che la esprime in che modo la realtà umana, la comunità dei Santi, esprimono la vera realtà della Chiesa particolare. La comunione ecclesiale è comunione di vita, di carità e di verità, in quanto sussiste un fermo ed evidente legame dell’uomo con Dio, fonda una nuova relazione tra gli uomini stessi e manifesta l’autentica e originale natura sacramentale della Chiesa. La Chiesa è “la casa e la scuola della comunione con Dio”, che si edifica intorno alla Santa Eucaristia, sacramento fondamentale della comunione ecclesiale, dove “partecipando realmente del Corpo e del Sangue di Cristo, siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi”; allo stesso tempo, l’Eucaristia è l’epifania eterna della Chiesa, dove viene manifestato il suo carattere Trinitario. La Chiesa ha la missione di annunziare e propagare il Regno di Dio fino agli estremi confini della terra, affinché tutti gli uomini di buona volontà. credano in Cristo e così conseguano la vita eterna. La Chiesa è pertanto anche missionaria. Difatti, “la missione propria, che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, non è di ordine politico o economico e sociale: il fine, che le ha prefisso è di ordine religioso e strettamente morale. Eppure, proprio da questa missione religiosa scaturiscono dei compiti ben precisi, della luce e delle forze che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la Legge divina”. Il Vescovo, visibile principio di unità nella sua Chiesa, è chiamato a edificare incessantemente la Chiesa particolare nella comunione di tutti i suoi membri e, di questi, con la Chiesa Universale, vigilando, affinché, i diversi doni e ministeri contribuiscano alla comune edificazione dei credenti ed alla diffusione del Vangelo in tutti gli estremi confini della terra. Quindi, quale maestro della fede, santificatore e guida spirituale, il Vescovo sa di poter contare su una speciale grazia divina, conferitagli nel Rito dell’ordinazione episcopale. Tale grazia lo sostiene nel suo spendersi per il Regno di Dio, per la salvezza eterna degli uomini e anche nel suo impegno per costruire la storia con la forza del Vangelo, dando senso al cammino dell’uomo nel corso del tempo e negli avvenimenti passati e futuri. Per concludere, «Il vescovo che non prega, che non ascolta la Parola di Dio, che non celebra tutti i giorni, che non va a confessarsi regolarmente, e lo stesso vale per il sacerdote che non fa queste cose, alla lunga perdono l’unione con Gesù e diventano di una mediocrità che non fa bene né alla Chiesa, né al popolo di Dio. Per questo dobbiamo aiutare i vescovi e i sacerdoti a pregare, ad ascoltare la Parola di Dio che è il pasto quotidiano, a celebrare ogni giorno l’Eucaristia e andare a confessarsi abitualmente. Questo è tanto importante perché riguarda proprio la santificazione dei vescovi e dei sacerdoti», perché anch’essi un giorno a conclusione della loro vita mortale, dovranno dare conto delle loro azioni davanti al Signore Gesù Cristo, che li premierà con la Vita in Beatitudine, o li condannerà alla dannazione eterna senza fine.

CAPITOLO IV

Il Deposito della Fede (depositum fidei)

Nella dottrina della Chiesa cattolica, con l’espressione deposito della fede (dal latino depositum fidei), si intende quell’unico patrimonio di tutte le verità, sia in ordine alla conoscenza, quindi la fede, che al comportamento morale, insegnate da Gesù, mediatore e pienezza della Rivelazione, nei tre anni della Sua predicazione, agli Apostoli e, da questi, trasmesse nel corso del tempo e dei secoli al Collegio dei Vescovi quali loro successori. Tali verità costituiscono il principio e il fondamento principale da cui attinge il Magistero della Chiesa, che non potendo aggiungere nulla a quanto, almeno implicitamente è già contenuto nella Rivelazione, rimangono infallibili come tali. Quindi la verità progredisce all’interno della Chiesa lungo i secoli con l’assistenza dello Spirito Santo. Quindi, Episcopato e fedeli cattolici sono chiamati a ritenere, praticare e professare concordemente la fede trasmessa dagli Apostoli. Il concorde insegnamento del magistero ordinario e la fede consenziente del popolo cristiano da sé stesso manifesta in modo certo ed infallibile che una certa verità è rivelata da Dio ai Profeti, e per mezzo di Gesù Cristo al mondo intero. Con il termine “deposito” (in greco parathēkē) si vuole significare che la Chiesa nel corso dei secoli non aggiunge nulla alla Rivelazione di Gesù, ma la trasmette fedelmente come un bene ricevuto in custodia. Il termine parathēkē è presente solo tre volte in tutto il Nuovo Testamento, ed è sempre accostato al termine phylassein (custodire), come a sottolineare il dovere di ascoltare, conservare e poi restituire o addirittura trasmettere intatto quanto Gesù ha affidato ai suoi Dodici Apostoli. Con la morte dell’ultimo degli Apostoli, S. Giovanni, si considera conclusa la Rivelazione pubblica; alle verità da essi insegnate non è più possibile “aggiungere” nulla di quanto è stato già scritto o raccontato. Ma di queste verità la Chiesa non ha avuto fin dall’inizio, una piena ed esatta comprensione; solo nel corso dei secoli ne prende coscienza in misura sempre maggiore. “Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza e l’ausilio dello Spirito Santo”. Perciò la Chiesa può all’occorrenza definire nuovi Dogmi che non sono “aggiunti” al Deposito della fede, ma piuttosto chiarificazioni di questioni ancora non pienamente comprese o non ancora accettate da tutti. Ad esempio; il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima, seppure proclamato soltanto nel 1950, esprime una Verità di Fede le cui prime testimonianze scritte risalgono addirittura al IV secolo. Ma all’interno della Costituzione Dogmatica “Munificentissimus Deus”, promulgata da Papa Pio XII il 1° novembre 1950, evidenzia inoltre come il dogma sia fondato sulla Parola di Dio e dichiara perciò, con l’autorità della Chiesa tale verità, come rivelata. Infatti, l’insegnamento della Chiesa non si limita al contenuto dei Libri Sacri, ma comprende anche tutto ciò che è stato trasmesso in forma orale e tutto ciò di cui la Chiesa ha preso coscienza nel corso dei secoli. Quindi, la trasmissione del Deposito della fede non avviene solo tramite tutto ciò che è scritto, vale a dire, la Sacra Scrittura, ma anche e soprattutto attraverso la Tradizione. Volendo stabilire un confronto tra le due Fonti della Rivelazione è doveroso osservare che la Tradizione:

  • cronologicamente precede la Sacra Scrittura;
  • presenta autorevolmente la S. Scrittura, in quanto ne fissa il Canone e ne garantisce la divina ispirazione con la conseguente inerranza;
  • completa la S. Scrittura, che da sola non è una sintesi compiuta delle verità rivelate;
  • interpreta il senso della S. Scrittura, incapace di spiegarsi da sé.
  • Dunque, la Sacra Scrittura non può stare senza la vicinanza della Tradizione (cfr. DV 8-9).

A questo punto, come abbiamo precedentemente espresso, il Deposito della Fede è costituito da tutte quelle verità che la Chiesa custodisce e trasmette, e da cui il Magistero attinge tutto ciò che propone ai fedeli di credere senza riscontrare in esse nessuna forma di dubbio. Tali verità sono già tutte contenute nella Sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura, ma non sono ancora completamente esplicitate. “La Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina”, e arricchisce continuamente il suo magistero con pronunciamenti ufficiali e Dogmi di Fede. A questo proposito il Concilio Vaticano II, nella Costituzione Dogmatica la Dei Verbum, chiarisce definitivamente dicendo: “La sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa”. Il Concilio di Trento, da quanto traspare nei suoi pronunciamenti, identifica i tre principi e fondamenti della fede cristiana cattolica:

  1. nei libri sacri dell’Antico Testamento, che furono scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo;
  2. in Cristo, che ha piantato il suo Vangelo, non per iscritto ma oralmente, non sulla carta ma nei cuori di ogni uomo sulla terra. Da ciò che emanò da Cristo (quae a Christo emanarunt) furono scritte alcune cose, altre rimasero nel cuore degli uomini. Questo secondo principio della fede, viene comunemente chiamato rivelazione pubblica, in quanto il divino si è manifestato all’uomo pubblicamente, assumendo la natura umana, ed è costituito dai libri Sacri del Nuovo Testamento e dalla Sacra Tradizione della Chiesa.
  3. a ciò si aggiunge come terzo principio (tertium autem) il fatto seguente: poiché il Figlio dell’uomo non doveva rimanere per sempre tra di noi, egli mandò il suo Spirito Santo nel mondo, il quale doveva spiegare i misteri di Dio e tutto ciò che per l’uomo era rimasto ancorato nel dubbio. Da qui le parole di Gesù riferite dall’Apostolo Giovanni:” Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,12-13).

“L’ufficio poi di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è affidata al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo”. Ecco che la Chiesa, con il suo Magistero, illumina i fedeli circa le verità da credere e dal Deposito della Fede, si “attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio”, al mondo intero. Le rivelazioni private, comprese quelle riconosciute dall’autorità della Chiesa Cattolica, non appartengono al Deposito della Fede. Nelle due costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II relative alla divina rivelazione e alla Chiesa, rispettivamente: Dei verbum e Lumen Gentium, non si fa menzione delle rivelazioni private. Si sono accavallate dal Concilio di Trento in poi, autorevoli opinioni di indirizzo diverso sulla natura dell’adesione, di sola fede umana o di fede divina, che ad esse sia dovuta. La materia non è ancora definita dogma, ma qualsiasi rivelazione che pretenda di superare o di correggere la Rivelazione di cui Cristo è il suo compimento non può essere considerata accettabile da nessun punto di vista. Bisogna anche aggiungere che, non tutte le verità di Fede vengono proposte dal Magistero con lo stesso grado di certezza. Esistono pronunciamenti dogmatici che sono infallibili ed altri irriformabili; altri ordinari come ad esempio: le sentenze prossime o pertinenti alla fede. Infine, esistono le cosiddette opinioni teologiche, dove la materia non è ancora ben definita, quindi, il Magistero non si è ancora pronunciato in maniera solenne, né tantomeno nelle sue funzioni ordinarie. A questo punto, i teologi presentano le loro conclusioni che a volte risultano anche essere in disaccordo o una forte contraddizione fra loro stessi. Il Magistero papale, quindi, nella sua forma comune ed ordinaria non è infallibile. Anche le decisioni delle varie e rispettive Congregazioni non sono infallibili. Non di meno, esse sono da accogliersi con l’assenso interno sgorgante dall’obbedienza all’autentico Magistero ecclesiastico. Per questo, si deve credere con “fede divina” e “cattolica” a tutto ciò che la Chiesa propone e annuncia a credere come: “divinamente rivelato da parte di Dio e da Gesù Cristo” sia con un giudizio solenne, sia con un magistero ordinario ed universale. Però, in via eccezionale, per i pronunciamenti diversi da quelli infallibili, “può cessare l’obbligo dell’assenso interno quando un competente in materia, avendone coscienziosamente esaminato tutti i motivi, giungesse alla sicura convinzione che la decisione del magistero ecclesiastico poggia su uno o più determinanti errori, che potrebbero portare in confusione il popolo di Dio”. A questo punto del nostro argomento, possiamo riassumere e schematizzare i gradi della Fede nella seguente tabella qui ivi riportata:

Il magistero solenne, il grado massimo, infallibile e irriformabile, da credere con fede divina e cattolica:

  • Proclamazioni di dogmi di fede;
  • Verità solennemente proclamate da un Concilio Generale;
  • Le Canonizzazioni;
  • Il magistero ordinario, il grado intermedio, non infallibile

Da credere con fede divina e cattolica:

  • Lettere encicliche di magistero ordinario;
  • I Catechismi approvati dai Vescovi;
  • Decisioni delle congregazioni romane;
  • Le Sentenze pertinenti alla fede o teologicamente certe (sententiae ad fidem pertinentes vel theologice certae); la cui verità è garantita dal loro intimo rapporto con la rivelazione;
  • Le Sentenze prossime alla fede (sententiae fidei proximae); ritenute dalla quasi totalità dei teologi come verità rivelate, ma che la Chiesa non ha ancora proclamato tali dogmaticamente;

Le opinioni teologiche, minor grado di credibilità, fallibili, dove non c’è l’obbligo di credere con fede divina e cattolica:

  • La Sentenza comune appartiene per sé alle libere opinioni ma è sostenuta comunemente dai teologi;
  • La Pia Sentenza, quando è comunemente riconosciuta nella Chiesa;
  • La Sentenza ben fondata, quando è teologicamente fondata;
  • La Sentenza più probabile ha una sicura priorità sulle altre;
  • La Sentenza probabile ha una priorità sulle altre;
  • L’Opinione tollerata; essa ha il minimo grado di credibilità poiché è solo debolmente fondata ma è tollerata dalla Chiesa.

Infine, nel senso negativo esistono poi le cosiddette censure teologiche ovvero dei giudizi per mezzo dei quali alcune proposizioni concernenti la dottrina o la morale della Chiesa cattolica vengono designate come contrarie alla fede o almeno pericolose, sia per il Magistero che per i fedeli del popolo santo di Dio. Un altro elemento fondamentale che è presente nel Deposito della Fede, e la questione importante dell’infallibilità del Romano Pontefice, che la Chiesa lo ha definito un autentico Dogma della Fede. Il Papa, «quando parla ex cathedra, vale a dire, è quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del Beato Apostolo Pietro, quindi, gode di quell’infallibilità con cui il Divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per sé stesse, e non per il consenso della Santa Cattolica e Apostolica Chiesa». Non è invece infallibile, quando insegna come dottore privato, esprimendo opinioni personali, rivolgendosi a particolari gruppi di fedeli, riferendosi a rami del sapere estranei al Deposito della Fede. Questa limitazione è indicata nella stessa definizione dogmatica del Concilio Vaticano I, che dichiara il Papa infallibile solo come persona pubblica, ossia quando insegna come pastore e dottore universale: «cum omnium Christianorum pastoris et doctoris munere fungens» (sess. IV, c. 4, o Denzinger, 3074). In conclusione, l’ultimo tassello da analizzare è: il senso della fede, dal latino sensus fidei. È una grazia tramite la quale la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi in tutto ciò che bisogna credere, altrimenti verrebbe compromessa una qualche verità custodita nel Deposito della Fede. A tale punto, questo meccanismo implica che: se dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici, c’è l’universale consenso in cose di fede e di morale, allora la dottrina è valida. Viceversa, se la quasi totalità dei fedeli, pastori e laici, cadesse in errore, o addirittura nella consapevole eresia, ci sarebbe sempre un piccolo numero, a volte detto: “il piccolo resto cattolico”, per portare avanti la sana dottrina, preservando l’integrità del Deposito della Fede. Cristo, considerato dal mondo intero, il grande Maestro di Verità e di Vita, adempie in pieno il suo ufficio profetico fino alla piena manifestazione della Sua gloria, non solo per mezzo della gerarchia ecclesiastica, che insegna in nome e con la potestà di Lui, ma anche per mezzo dei laici, che costituisce suoi testimoni, provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale di ogni uomo, su tutta la faccia della terra.

CAPITOLO V

Gli impegni del vescovo per la Chiesa Universale

In forza della sua appartenenza al Collegio episcopale, il Vescovo ha la sollecitudine per tutte le Chiese, quindi, è legato agli altri membri del Collegio mediante la fraternità episcopale e lo stretto vincolo che unisce i Vescovi al Capo del Collegio; ciò richiede che ciascun Vescovo collabori strettamente e pienamente con il Romano Pontefice, Capo del Collegio episcopale, al quale, per l’ufficio primaziale su tutta la Chiesa, è affidato il compito di portare a tutti i popoli la luce del Vangelo. In primo luogo, il Vescovo dovrà effettivamente essere segno e promotore di unità nella Chiesa particolare che egli rappresenta in seno alla Chiesa universale. Egli dovrà avere quella sollecitudine per tutta la Chiesa, che, anche se non è esercitata individualmente su concreti fedeli con la potestà di giurisdizione, contribuisce al bene di tutto il popolo di Dio. Per questo motivo che il Vescovo dovrà “promuovere e difendere l’unità della Fede e la disciplina comune a tutta la Chiesa”, contribuendo al Magistero ordinario della Chiesa e all’adeguata applicazione della disciplina canonica universale, educando i propri fedeli al senso della Chiesa universale e collaborando a promuovere ogni attività comune alla Chiesa. Il Vescovo non dovrà mai in nessun modo dimenticare il principio pastorale secondo il quale, reggendo bene la propria Chiesa particolare, contribuisce al bene spirituale di tutto il popolo di Dio, che è il corpo della Chiesa di Cristo. Oltre alla principale forma istituzionale di collaborazione del Vescovo al bene comune di tutta la Chiesa, nella partecipazione al Concilio Ecumenico, nel quale si esercita in forma solenne e universale la potestà del Collegio episcopale, tale collaborazione si realizza anche nell’esercizio della suprema e universale potestà mediante l’azione congiunta con altri Vescovi, se essa è come tale indetta o liberamente recepita dal Romano Pontefice. Ogni Vescovo ha il diritto e il dovere di assistere e collaborare attivamente all’una o all’altra azione collegiale con la preghiera, lo studio ed esprimendo il suo voto su determinati quesiti o proposte da parte di altri Vescovi. Il Sinodo dei Vescovi offre un prezioso aiuto consultivo alla funzione primaziale del Successore di Pietro, oltre a rafforzare i vincoli di unione tra i membri del Collegio episcopale. Se è chiamato a parteciparvi personalmente, il Vescovo compie l’incarico con zelante applicazione, guardando soltanto alla gloria di Dio e al bene della Chiesa, lasciando lontano da lui eventuali problemi o afflizioni che lo affliggono. Questi stessi sentimenti devono guidarlo nel dare il proprio parere sulle questioni proposte dalla riflessione sinodale o quando si tratta di eleggere, nel seno della propria Conferenza Episcopale, i Vescovi impegnati nel ministero, o i Vescovi emeriti che, per conoscenza ed esperienza della materia, possano rappresentarlo nel Sinodo. La medesima sollecitudine per la Chiesa universale spingerà il Vescovo a presentare al Papa consigli, osservazioni e suggerimenti, a segnalargli eventuali pericoli per la Chiesa, occasioni per iniziative e altre utili indicazioni: così presta un inestimabile servizio al ministero primaziale e un contributo sicuro all’efficacia del governo universale della Chiesa. Alla richiesta di pareri intorno a questioni pastorali o sollecitato a collaborare nella preparazione di documenti di portata universale, specialmente se ricopre l’ufficio di membro o consultore di qualche Dicastero della Curia Romana, il Vescovo risponda con franchezza, dopo un serio studio e una continua meditazione, della materia coram Domino. Se gli viene richiesto di espletare un incarico per l’interesse di tutta la Chiesa, il Vescovo farà il possibile per accettarlo e lo compirà con diligenza, premura e massima attenzione. Consapevole della sua responsabilità per l’unità e totalità della Chiesa e tenendo presente con quanta facilità oggi qualunque dichiarazione venga conosciuta da larghi strati dell’opinione pubblica, il Vescovo si guardi dal mettere in discussione aspetti dottrinali del Magistero autentico, o eventuali segnalazioni disciplinari per non recare danno all’autorità della Chiesa e a quella sua persona; egli ricorra piuttosto agli ordinari canali di comunicazione con la Sede Apostolica e con gli altri Vescovi, se ha questioni da porre al riguardo di aspetti dottrinali o eventuali provvedimenti disciplinari. Come effetto della sua consacrazione episcopale, della comunione gerarchica e della sua appartenenza al Collegio episcopale e quale segno di unione con Gesù Cristo, il Vescovo tenga nel più gran conto e alimenti con cuore la comunione di carità e di ubbidienza col Romano Pontefice, facendo proprie le sue intenzioni, le iniziative, le gioie e le preoccupazioni e incrementando anche nei fedeli i medesimi filiali sentimenti. Il Vescovo esegua fedelmente le disposizioni dettate dalla Santa Sede e dei vari Dicasteri della Curia Romana, che aiutano con diligenza il Romano Pontefice nella sua missione di servizio alle Chiese particolari e ai loro Pastori. Procuri, inoltre, che i documenti della Santa Sede giungano capillarmente a conoscenza dei sacerdoti o, secondo le circostanze, a tutto il popolo, illustrandone opportunamente il contenuto per renderlo accessibile a tutti. Per dare attuazione nel modo più appropriato ad ogni documento, oltre alle eventuali indicazioni presenti nel medesimo, il Vescovo dovrà studiarne la natura propria (magisteriale, dispositiva, orientativa, ecc.) e il contenuto pastorale; trattandosi di leggi e altre disposizioni normative, occorre speciale attenzione nell’assicurarne l’immediata osservanza dal momento della loro entrata in vigore, eventualmente mediante opportune norme applicative diocesane. Se si tratta di documenti di altro genere, per esempio di orientamento generale, il Vescovo stesso dovrà valutare con prudenza il modo migliore di procedere, in funzione del bene pastorale del suo gregge che gli fu affidato dal Signore Gesù Cristo. Un membro importante e funzionale della Chiesa è il Legato Pontificio. Egli rappresenta il Romano Pontefice davanti alle Chiese particolari e davanti agli Stati. La sua missione non si sovrappone alla funzione dei Vescovi e neppure la ostacola o sostituisce, bensì la favorisce in molte maniere e la sostiene con fraterno consiglio. Pertanto, il Vescovo s’impegni a mantenere con il Rappresentante Pontificio rapporti improntati a sentimenti fraterni e di reciproca confidenza, tanto a livello personale come in unione alla Conferenza Episcopale, e utilizzi i suoi uffici per trasmettere informazioni alla Sede Apostolica e per sollecitare i provvedimenti canonici che ad essa competono. Come forma specifica di collaborazione con il ministero del Romano Pontefice, il Vescovo, insieme agli altri Pastori della provincia ecclesiastica o della Conferenza Episcopale o anche personalmente, segnali alla Sede Apostolica quei sacerdoti che giudica idonei per ricevere la consacrazione episcopale. Nello svolgimento delle previe indagini sui possibili candidati, il Vescovo potrà consultare singolarmente persone informate; ma non consentirà mai che si faccia una consultazione collettiva, in quanto essa metterebbe in pericolo il segreto prescritto dalla legge canonica, necessario quando si tratta del buon nome delle persone, e potrebbe condizionare la libertà del Romano Pontefice nella scelta del più idoneo. “I Vescovi, in ragione del vincolo di unità e di carità, secondo le disponibilità della propria diocesi o se gestiscono una Prelatura Personale, contribuiscano a procurare i mezzi di cui la Sede Apostolica secondo le condizioni dei tempi necessita, per essere in grado di prestare in modo appropriato il suo servizio alla Chiesa universale”. Il Vescovo neppure trascuri quella particolare questua che si chiama Obolo di San Pietro, destinata a far sì che la Chiesa di Roma possa validamente adempiere il suo ufficio di presidenza nella carità universale. Quando le possibilità della diocesi lo permettono e vi siano sacerdoti adatti e preparati che vengano richiesti, il Vescovo li metta a disposizione della Santa Sede ad tempus o in maniera illimitata. Ora, secondo la disciplina canonica, il Vescovo diocesano compie ogni cinque anni l’antica tradizione della Visita “ad Limina”, per onorare i sepolcri dei santi Apostoli Pietro e Paolo e incontrare il Successore di Pietro, il Vescovo di Roma. La visita nei suoi diversi momenti liturgici, pastorali e di fraterno scambio, ha per il Vescovo un preciso significato: accrescere il suo senso di responsabilità come Successore degli Apostoli e rinvigorire la sua comunione con il Successore di Pietro. La visita, inoltre, costituisce anche un momento importante per la vita della stessa Chiesa particolare la quale, per mezzo del proprio rappresentante, consolida i vincoli di fede, di comunione e di disciplina che la legano alla Chiesa di Roma e all’intero corpo ecclesiale. Gli incontri fraterni con il Romano Pontefice e i suoi più stretti collaboratori della Curia Romana, offrono al Vescovo un’occasione privilegiata non solo per fare presente la situazione del proprio ministero e le sue aspettative che ne derivano, ma anche per avere maggiori informazioni circa le speranze, le gioie e le difficoltà della Chiesa universale, per ricevere opportuni consigli e direttive sui problemi del proprio gregge. Tale visita rappresenta un momento centrale anche per il Successore di Pietro che riceve i Vescovi delle Chiese particolari per trattare con essi le questioni riguardanti la loro missione ecclesiale. La visita “ad Limina” è così espressione della sollecitudine pastorale di tutta la Chiesa di Cristo. Per tali motivi, è necessaria una diligente preparazione. Con sufficiente anticipo, non meno di sei mesi, se possibile, il Vescovo si preoccuperà di inviare alla Santa Sede la Relazione sullo stato della diocesi, per la cui redazione dispone del relativo Formulario preparato dalla competente Congregazione per i Vescovi. Detta Relazione dovrà fornire al Romano Pontefice e ai Dicasteri romani un’informazione di prima mano, veritiera, sintetica e precisa, che è di grande utilità per l’esercizio del ministero petrino. Al Vescovo, successivamente, la relazione offrirà un mezzo idoneo per esaminare lo stato della sua Chiesa e per programmare il lavoro pastorale: perciò, conviene che per la sua elaborazione il Vescovo si avvalga dell’aiuto dei suoi più stretti collaboratori nella funzione episcopale, sebbene il suo contributo personale risulti indispensabile, soprattutto negli aspetti che riguardano più da vicino la sua attività ministeriale, per dare una visione d’insieme del lavoro pastorale. La prassi attuale è che le visite si svolgano di regola per le Conferenze Episcopali, o divise in vari gruppi se troppo numerose, evidenziando così l’unione collegiale tra i Vescovi. Benché diversi momenti si svolgano in gruppo, come ad esempio le visite alle tombe degli Apostoli, il discorso del Papa, la riunione con i vari Dicasteri della Curia Romana, è sempre il singolo Vescovo che presenta la relazione e compie la visita a nome della sua Chiesa, incontrando personalmente il Successore di Pietro, ed avendo sempre il diritto e il dovere di comunicare direttamente con lui e con i suoi collaboratori su tutte le questioni riguardanti il suo sacro ministero pastorale.

CONCLUSIONI

I Vescovi sono veri Pastori e giudici nella Fede, così anche loro sono soggetti al Papa senza cessare di essere Vescovi, Pastori e giudici nelle loro singole diocesi o prelature, come il Romano Pontefice lo è in tutta la Santa Chiesa. Quindi i Vescovi come i giudici inferiori non possono emanare una sentenza contraria a quella del Papa, nel caso che egli si sia già pronunciato, ma il loro giudizio deve conformarsi a quello del Papa per essere veramente un buon giudizio (De vi ac ratione, cap. XIII, n. 13). La natura del vero giudizio legale consiste nel fatto che il giudice pronuncia la sentenza con una sufficiente cognizione di causa. Ora quando i Vescovi, in un eventuale Concilio oppure sparsi nelle loro diocesi in tutto il mondo, approvano una dottrina definita dal Papa, pronunciano una sentenza con sufficiente cognizione di causa, sia perché hanno il dovere di studiarla, sia perché sanno che il Papa quando:

  • parla di fede e di morale;
  • come supremo Pastore della Chiesa universale;
  • definisce;
  • obbliga, quindi, non può errare nella Fede.

I Vescovi, come è rivelato nel Vangelo di San Matteo, in quanto successori degli Apostoli hanno ereditato i loro tre poteri, ossia il Magistero, il Ministero Sacro o Sacerdozio e, l’Imperio o Governo: “Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e facendo loro osservare quanto vi ho comandato” (Mt., 28, 28). Essi, quindi, sono: 1) “veri doctores seu magistri” (CIC, 1917, can. 1326), che prolungano nel tempo l’insegnamento divino/apostolico e sono, col Romano Pontefice sottomessi a lui, gli autentici custodi e interpreti  della divina Rivelazione, che debbono predicare ai loro fedeli; 2) hanno il potere sacro di santificare v. Pontificale Romano: “Il Vescovo deve consacrare, ordinare, offrire il sacrificio, battezzare e cresimare”; 3) hanno, infine, il potere di giudicare con autorità giurisdizionale: “Lo Spirito Santo  ha posto i Vescovi a governare la Chiesa di Dio” (At., 20, 28). La nostra Fede, compendiata nel Credo e spiegata nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ci insegna che il Papa è il Vicario in terra di Gesù Cristo. Egli è la Pietra sulla quale Cristo ha costruito la sua Chiesa e contro la quale “le porte degli inferi non prevarranno”. Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è un mistero che si definisce come “Unione Ipostatica”. Tale mistero ci disorienta spesso, durante la sua vita e specialmente durante la sua Passione, quando la sua “Natura divina si nascondeva e lasciava trasparire solo quella umana, che soffriva terribilmente” (s. Ignazio da Loyola) ed era “più simile ad un verme che ad un uomo” (Isaia). Gli Apostoli stessi si scandalizzarono, smarrirono lo spirito di Fede e rinnegarono Gesù, non riuscendo a capire ed ammetter che il Messia potesse essere sconfitto e umiliato. La Chiesa è di Cristo che continua nel corso della storia, a svolgere le sue funzioni santificanti. Anch’essa ha un duplice elemento: quello divino, il principio che l’ha fondata Cristo e, il fine cui tende, vale a dire, il Cielo e Dio visto “faccia a faccia”, ed uno umano, le membra di cui è composta, gli uomini sia i semplici fedeli che i Vescovi ne fanno pienamente parte di essa. Quindi bisogna anche aggiungere che nel corso della storia della Chiesa vi sono state pagine gloriose, alcune poco belle, altre addirittura bruttissime da dimenticare. Se non avessimo la virtù teologale della Fede nella sua origine divina e nella protezione di cui la ammanta Gesù: “ogni giorno, sino alla fine del mondo”, rischieremmo di scandalizzarci e perdere la nostra Fede, “senza la quale è impossibile piacere a Dio” dice san Paolo nei suoi scritti. Il Papa è un uomo come tutti gli altri uomini della terra, ma assistito da Dio infallibilmente; però solo a certe specifiche condizioni, che non tolgono o aggiungono nulla alla sua natura umana debole e caduca. San Pietro stesso rinnegò Gesù non una ma ben tre volte con le parole “non conosco quest’uomo”. Quindi, per quanto riguarda Gesù, la Chiesa e il Papa occorre sempre, aver presente il loro duplice elemento: umano e dunque “deficiente”; divino e quindi “impeccabile”. Se si vede solo il primo, si cade nel razionalismo naturalista e si rinnega la Fede teologale, se si fa riferimento solo al secondo si scivola verso un angelismo rigorista e un pneumatismo cataro, che porta egualmente alla rovina, “ogni eccesso è considerato un difetto”. Chi pretende di sapere tutto di tutto e di avere la certezza e l’evidenza di come stiano realmente le cose sbaglia terribilmente; specialmente in una situazione di oscurità e di incertezza come l’attuale, che non ha avuto eguali in tutta la storia della Chiesa. Ogni risposta (anche la mia), “soluzione” o “tentativo” è parziale ed ha le sue ombre e i suoi chiaroscuri. Solo la Chiesa gerarchica potrà dirci la parola definitiva. Quindi “sì non vis errare, noli velle scrutare” (s. Agostino). La crisi conciliare e postconciliare è un “mistero tremendo”; ora il mistero va oltre la ragione umana, la sorpassa, ma non è contro di essa. Dunque, “cerchiamo di rendere certa la nostra elezione, mediante le nostre buone opere” (s. Pietro). Ossia, fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto, rifiutando le novità che ci hanno portato a tale stato di confusione dommatica, morale e liturgica. Nella Summa Teologica di San Tommaso d’Aquino spiega che “la Divinità miracolosamente permise all’umanità di Cristo di provare angoscia per l’abbandono (apparente) da parte di Dio, pur essendo essa unita ipostaticamente alla Persona divina del Verbo e godendo la visione beatifica. Ciò fu permesso perché attraverso molte tribolazioni occorre entrare nel Regno dei Cieli” (III, q. 45, a. 2, in corpore). Sempre nella Somma leggiamo: “Fu per miracolo che la divinità non ridondava sull’umanità di Cristo” (III, q. 14, a. 1 ad 2um), “affinché potesse compiere il mistero della nostra redenzione soffrendo” (III, q. 54, a. 2, ad 3um). Gesù Cristo stesso ha richiamato la nostra attenzione su tale mistero quando ha gridato sulla croce: “Dio mio perché mi hai abbandonato?”. La risposta al “perché” non è stata immediata, ci si è dovuti accontentare, durante la Passione, del “fatto”. Così oggi nella Passione della Chiesa si nasconde il suo elemento divino ed appare solo quello umano nella maniera più brutta. Questo è un mistero che deriva da quello dell’Unione Ipostatica e dal duplice elemento (divino e umano) della Chiesa (che è Cristo continuato nella storia). Gesù aveva predetto agli Apostoli questa sua (e loro) eclissi: “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Poiché sta scritto: Percuoterò il Pastore e il gregge si disperderà” (Giovedì Santo). Nostro Signore, però, ci esorta assieme agli Apostoli: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e in Me” e spiega: “Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi. Quando giungerà la loro ora ricordatevi che ve ne ho parlato”. L’ora della “Sinagoga di satana” (Ap., II, 9) e del potere infernale è qualcosa di preternaturale, che quasi si tocca con mano oggi, come durante la Passione di Gesù. “Verrà la loro ora, anzi è già venuta, in cui tutti voi vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo”. “Ma non dovete preoccuparvi, perché io sarò con voi, fino alla fine del mondo”.

Dato a Roma nella Sede Episcopale, il 24 Novembre A. D 2019

Nella XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Solennità di Cristo Re dell’Universo

+ Salvatore Micalef

Vescovo Ordinario

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